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Panspermia, polpi e comete

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view post Posted on 21/2/2024, 21:25     +1   -1
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Panspermia, polpi e comete


Michele Diodati



L’origine della vita sulla Terra è ignota. In ambito scientifico esistono due teorie che provano a spiegare il mistero: l’abiogenesi, preferita dalla gran parte degli scienziati, e la panspermia, difesa da una piccola, ma agguerrita cerchia di studiosi. Questo articolo si propone di spiegare cos’è la panspermia e quali sono le ragioni addotte dai suoi sostenitori.

I protagonisti di questa storia

Nel 1979 la Mondadori pubblicò un libro che lessi avidamente, perché prometteva risposte ai grandi interrogativi esistenziali e cosmologici che, allora come adesso, erano al centro dei miei interessi: “La nuvola della vita”, di Fred Hoyle e Chandra Wickramasinghe. Era la traduzione in italiano di un libro pubblicato l’anno prima dalla casa editrice britannica Dent, con il titolo “Life Cloud. The origin of life in the Universe”. L’opera era il manifesto ufficiale della panspermia, la teoria sull’origine cosmica della vita sostenuta dai due autori. Il libro di Hoyle e Wickramasinghe mi è tornato in mente in questi giorni, mentre leggevo l’anteprima di stampa dell’ultimo studio sulla panspermia, in corso di pubblicazione sulla rivista Progress in Biophysics and Molecular Biology. L’articolo, intitolato “Cause of Cambrian Explosion — Terrestrial or Cosmic?”, è un compendio generale sull’ipotesi della panspermia, aggiornato con i risultati scientifici più recenti, tra cui quelli relativi all’analisi del meteorite di Polonnaruwa, caduto nell’isola di Sri Lanka alla fine del 2012. Tra i numerosi autori dell’articolo non c’è ovviamente Fred Hoyle, scomparso nel 2001, ma c’è il suo discepolo e collega Chandra Wickramasinghe, superstite di un sodalizio scientifico durato quarant’anni.
Fred Hoyle, nato in Inghilterra nel 1915, è stato l’autore dei primi due articoli scientifici sulla nucleosintesi di elementi più pesanti dell’elio, cioè il processo che, all’interno delle stelle, a temperature di molti milioni di gradi, conduce alla formazione di elementi come il ferro, a partire da altri più leggeri. L’idea straordinariamente moderna presentata dall’autore, di gusci concentrici in cui avviene la sintesi di elementi via via più pesanti a mano a mano che ci si avvicina al nucleo stellare, è tuttora il paradigma di riferimento per la nucleosintesi nelle esplosioni di supernova. Il nome di Hoyle è legato indissolubilmente alla teoria del Big Bang. Fu Hoyle infatti a coniare l’espressione “Big Bang” (“Grande botto”), nel corso di una trasmissione radiofonica della BBC nel 1949. Ma, ironicamente, usò la locuzione in modo sarcastico, dal momento che era un acceso sostenitore di un modello cosmologico antagonista a quello del Big Bang, cioè la teoria dello Stato stazionario, di cui egli stesso era uno degli autori, basata sull’idea che la materia che riempie l’Universo sia il frutto di una creazione continua. Chandra Wickramasinghe, nato nel 1939 a Colombo, capitale dello Sri Lanka, è un matematico, un astronomo e un astrobiologo. Dopo un periodo di studio a Cambridge sotto la supervisione di Fred Hoyle, è stato a lungo professore di matematica applicata e di astronomia presso lo University College di Cardiff. È autore di decine di libri, molti dei quali dedicati alla divulgazione dell’ipotesi della panspermia, e di oltre 350 articoli scientifici, 75 dei quali pubblicati su Nature. La scienza — è doveroso precisarlo — non si fa con i nomi, per quanto autorevoli, ma con le prove. Tuttavia, poiché né l’abiogenesi, la teoria oggi dominante sull’origine della vita, né la panspermia sono sostenute da prove decisive, è interessante analizzare le idee e le prove indiziarie alla base dell’ipotesi della panspermia, per cercare di capire come mai scienziati di fama come Hoyle e Wickramasinghe abbiano abbracciato con incrollabile convinzione una teoria che la maggior parte dei loro colleghi ha sempre considerato poco più che una curiosità.
Questo articolo è dedicato a delineare il quadro teorico, poco conosciuto, che sostiene l’ipotesi della panspermia, un quadro ricco di spunti bizzarri e di tesi a dir poco controverse, ma che è ispirato nel suo insieme a una visione cosmica sorprendentemente profonda e potente, ricca di fascino e bellezza.

Una probabilità assurdamente piccola

La teoria che gode oggi del maggior consenso, l’abiogenesi, sostiene che la vita sia nata qui sulla Terra a partire da materiali inorganici, alla fine di un lento processo di assemblaggio guidato dal caso, avvenuto molto probabilmente nei camini idrotermali, fessure sommerse di origine vulcanica disseminate sui fondali marini, attraverso le quali sgorga acqua ad alta temperatura, arricchita di zolfo, ferro e altri minerali. La critica radicale di Hoyle e Wickramasinghe (da qui in poi H e W) alla teoria dell’abiogenesi è che la vita è un fenomeno troppo complesso, perché si possa seriamente pensare che si sia sviluppata sulla Terra, per tentativi ed errori, a partire dalla materia inorganica. In “Evolution from Space” del 1981, essi criticarono aspramente la teoria all’epoca più in voga, quella del cosiddetto “brodo primordiale”, che aveva ricevuto formidabile slancio in seguito al celebre esperimento compiuto negli anni ’50 da Stanley Miller e Harold Urey, due scienziati che avevano ricreato in laboratorio quelle che si pensava fossero le condizioni della Terra primordiale. Sottoponendo per una settimana a scariche elettriche una “zuppa” contenente idrogeno, metano, acqua e ammoniaca, Miller e Urey scoprirono che si erano formati spontaneamente numerosi aminoacidi, i componenti base delle proteine e della chimica della vita. Ma gli aminoacidi sono solo precursori della vita, non vita essi stessi. La critica di H e W si appuntò sull’estrema improbabilità che, a partire dagli aminoacidi, potessero essersi formate sulla Terra primordiale, procedendo per tentativi puramente casuali, macromolecole essenziali ai processi vitali quali per esempio gli enzimi.
Gli enzimi sono lunghi filamenti proteici che agiscono come catalizzatori: accelerano o ritardano le reazioni chimiche che consentono il metabolismo delle cellule viventi (chi manca dell’enzima lattasi, per esempio, non è in grado di digerire il lattosio, lo zucchero del latte). H e W calcolarono che le probabilità che possa assemblarsi in maniera casuale, per tentativi ed errori, un enzima perfettamente funzionante, dotato della giusta sequenza di aminoacidi e della forma spaziale corretta, sono non più di 1 su 10²⁰, cioè 1 su 100 miliardi di miliardi. H e W passarono poi a considerare le probabilità in relazione al numero totale di enzimi esistenti: “Di per se stessa, questa piccola probabilità può ancora essere ritenuta accettabile, se si tiene conto che per arrivare all’enzima non ci fu un’unica serie di “lanci”, ma, in base alla teoria, un grandissimo numero di tentativi, verificatisi all’interno di una zuppa organica all’inizio della storia della Terra. Il problema è che ci sono circa duemila enzimi e la probabilità di ottenerli tutti attraverso una serie di tentativi casuali è solo di una parte su (10²⁰)²⁰⁰⁰ = 10⁴⁰⁰⁰⁰, una probabilità assurdamente piccola, che non avrebbe speranza di realizzarsi neppure se l’intero universo fosse fatto di zuppa organica” (Evolution from Space, 1981). Una sola chance contro un totale di combinazioni sfavorevoli rappresentato da 1 seguito da 40.000 zeri: davvero troppo poco, soprattutto se si considera il breve tempo — in termini geologici — che il rimescolamento casuale degli “ingredienti” della vita ebbe a disposizione all’inizio della storia della Terra per passare dalla pura materia inorganica a organismi viventi in grado di riprodursi.
Nell’ipotesi originale dell’abiogenesi, risalente alle formulazioni di Haldane e Oparin, il tempo di incubazione della vita nella “zuppa” calda dei mari primordiali era ancora, tuttavia, di alcune centinaia di milioni di anni: un tempo molto più lungo di quanto non sia ammissibile oggi, in base alle ultime scoperte. Fino a soli tre decenni fa, infatti, le più antiche tracce documentate di forme di vita microbica erano dei cianobatteri fossili risalenti a 3,5 miliardi di anni fa. Poiché la formazione di una crosta terrestre stabile risale a circa 4,3 miliardi di anni fa, restava un intervallo di 800 milioni di anni a disposizione del caso e degli eventi naturali, affinché potesse prodursi nei mari della Terra arcaica la formula giusta in grado di innescare la vita. Ma le scoperte che si sono succedute negli ultimi anni hanno ridotto drammaticamente questa finestra temporale. Uno studio di Matthew S. Dodd e altri autori, pubblicato a marzo 2017 su Nature, descrive la scoperta di possibili microorganismi fossili risalenti a un’epoca compresa tra 3.770 e 4.280 milioni di anni fa, trovati in rocce sedimentarie provenienti da un antico camino idrotermale, in Canada, in una località del Quebec chiamata Nuvvuagittuq. Analogamente, uno studio di Elizabeth A. Bell e altri autori, pubblicato nel 2015, afferma la probabile origine biologica di alcune inclusioni di grafite presenti in uno zircone risalente a 4,1 miliardi di anni fa, trovato a Jack Hills, nell’Australia Occidentale.
Sembra, dunque, che la vita sia cominciata prestissimo sulla Terra, in pieno Adeano, la più antica delle ere geologiche, che si estende tra 4,6 e 4 miliardi di anni fa. Il pianeta stesso si consolidò durante l’Adeano, un’era che vide svolgersi la più infernale e violenta serie di eventi catastrofici che la Terra abbia mai sperimentato: non solo l’impatto gigante con il planetoide Theia, da cui nacque la Luna, ma anche un successivo bombardamento di comete e asteroidi, durato milioni di anni, causato dal probabile spostamento orbitale di Giove e altri pianeti esterni del sistema solare. Di quel bombardamento sono ancora oggi ben visibili le cicatrici: enormi crateri da impatto su Marte e sulla Luna, le cui superfici non sono in grado di rigenerarsi periodicamente come quella della Terra, aiutata dai moti tettonici e dall’erosione delle acque e dell’atmosfera. Chandra Wickramasinghe e gli altri autori dello studio in corso di pubblicazione (il cui primo firmatario è l’immunologo australiano Edward J. Steele) ritengono estremamente improbabile che la vita sia potuta nascere spontaneamente sulla Terra, partendo dalla materia inorganica, nel corso di un’era violenta e altamente instabile come l’Adeano: Noi pensiamo piuttosto che sia più ragionevole proporre l’idea che i particolari reperti di vita microbica trovati nelle rocce canadesi siano stati trasportati da bolidi cometari, solo per essere istantaneamente distrutti e carbonizzati nell’impatto. Le condizioni che con ogni probabilità dominavano nei pressi della superficie crivellata da impatti della Terra tra 4,1 e 4,23 miliardi di anni fa erano troppo estreme, non solo perché la vita potesse evolvere in tutta la sua complessità, ma anche solo perché semplici molecole organiche potessero sopravvivere. Ciò lascia la panspermia come la più plausibile e valida delle opzioni per quanto riguarda l’origine della vita terrestre; i primi microbi molto probabilmente arrivarono sul pianeta attraverso gli impatti di comete e meteoriti” (E. J. Steele et al, "Cause of Cambrian Explosion — Terrestrial or Cosmic?", 22018).
La panspermia, dunque, al contrario dell’abiogenesi, sostiene l’origine extraterrestre della vita: “Dal nostro punto di vista, attentamente ponderato, l’insieme dei dati multifattoriali e delle analisi critiche assemblate da Fred Hoyle, Chandra Wickramasinghe e dai loro numerosi colleghi porta alla conclusione scientifica, minima ma plausibile, che la vita sia stata disseminata qui sulla Terra da comete portatrici di vita non appena le condizioni sulla Terra lo consentirono (circa 4,1 miliardi di anni fa o poco prima); ed è possibile che a partire da allora siano stati trasportati sulla Terra di continuo organismi viventi quali batteri resistenti alle condizioni dello spazio, virus, cellule eucariotiche ed organismi più complessi (ad es. i tardigradi), forse persino uova fecondate e semi di piante, i quali, tutti insieme, hanno contribuito ad accelerare il progresso dell’evoluzione biologica terrestre. Questo processo, sin dal tempo di Lord Kelvin (1871) e Svante Arrhenius (1908), ha il nome scientifico di Panspermia”.

Le comete e il meteorite di Polonnaruwa

L’ipotesi che la vita sia stata portata sulla Terra dallo spazio non sarebbe scientificamente sostenibile, se si basasse unicamente su considerazioni di natura statistica come quelle discusse fin qui (l’estrema improbabilità della formazione casuale degli enzimi, soprattutto in un ambiente sottoposto a condizioni infernali, come quelle esistenti sulla Terra durante l’Adeano). Ben consapevoli di ciò, i fautori della panspermia hanno accumulato un insieme di prove, o meglio di indizi, a sostegno dell’ipotesi dell’origine extraterrestre della vita. A onor del vero, ognuna delle prove da essi addotte è quantomeno opinabile. Tuttavia, prese tutte insieme, formano un quadro coerente, che rende la panspermia — almeno secondo i suoi sostenitori— di gran lunga preferibile all’abiogenesi quale spiegazione dell’origine della vita. Il primo indizio portato a sostegno della teoria riguarda naturalmente le comete, che nell’ipotesi della panspermia hanno un ruolo centrale: se questi corpi primordiali sono stati davvero i vettori della vita, è necessario dimostrare che contengono, o possono contenere, materiale biologico. A tal proposito, uno studio, pubblicato a settembre 1986 su Nature, suggeriva che un evidente picco di assorbimento registrato alla lunghezza d’onda di 3,4 µm negli spettri della cometa di Halley, acquisiti nell’infrarosso a marzo di quell’anno, poteva essere spiegato con la presenza di materiale biologico nella cometa. Hoyle e Wickramasinghe, in un articolo del 1979, avevano già mostrato che le righe di assorbimento negli spettri prodotti da polveri interstellari, in lunghezze d’onda analoghe a quelle osservate per la cometa di Halley, erano perfettamente sovrapponibili a quelle prodotte in laboratorio da batteri ghiacciati e disseccati.
Molto più recentemente, i dati forniti dalla sonda Rosetta e dal lander Philae sulla Cometa 67P/Churyumov–Gerasimenko sono stati interpretati da Steele e colleghi come chiari indizi a favore dell’esistenza di microorganismi attivi sotto la superficie della cometa. In particolare, la scoperta di ossigeno molecolare e di acqua nei getti emessi in prossimità del perielio dal nucleo della Cometa 67P potrebbero essere interpretati come l’effetto di un’attività microbica; così come potrebbe essere effetto di attività microbica l’emissione di alcool etilico da parte della Cometa Lovejoy: “Microorganismi fotosintetici, operanti vicino alla superficie ai bassi livelli di luce presenti intorno al perielio potrebbero produrre O₂ insieme con composti organici. Inoltre, molte specie di batteri della fermentazione possono produrre etanolo dagli zuccheri, sicché la recente scoperta che la Cometa Lovejoy emette una quantità di alcool etilico pari a 500 bottiglie di vino al secondo può ben essere un’indicazione che un simile processo microbico sta effettivamente operando” (E. J. Steele et al, "Cause of Cambrian Explosion — Terrestrial or Cosmic?", 22018). Per i sostenitori della panspermia, la superficie scurissima delle comete, dall’aspetto simile a catrame, è un altro indizio dei processi biologici che avvengono sotto la loro superficie: l’aspetto catramoso potrebbe essere, infatti, il risultato della degradazione di materiale biologico, che avviene in concomitanza del passaggio al perielio, quando le comete ricevono la massima dose possibile di radiazione solare. Ben prima che si scoprisse che alcuni corpi del sistema solare come Europa, Encelado e Cerere possiedono oceani sotterranei probabilmente riscaldati da fonti di calore interno, Hoyle e Wickramasinghe avevano sostenuto già nel 1985 che qualsiasi corpo ghiacciato delle dimensioni della Luna avrebbe potuto contenere un oceano sotterraneo di acqua liquida, riscaldato dal decadimento radioattivo di una frazione di uranio e di torio in linea con quella tipica del sistema solare. Tali oceani sotterranei potrebbero essere in grado di mantenere per miliardi di anni habitat favorevoli al prosperare della vita microbica.
Anche i nuclei di alcune comete potrebbero aver ospitato depositi di acqua liquida sotto la superficie, riscaldati dal medesimo processo di decadimento radioattivo, almeno per i primi 500 milioni di anni dopo la formazione del sistema solare. In quelle acque sotterranee extraterrestri potrebbero essersi evoluti — ipotizzano i sostenitori della panspermia — gli organismi chemioautotrofi, cioè quei batteri in grado di ricavare il proprio nutrimento dall’ossidazione di composti inorganici. Ad ulteriore sostegno dell’ipotesi dell’origine extraterrestre della vita, uno studio pubblicato a marzo 2013 sul Journal of Cosmology descrisse le analisi compiute su alcuni frammenti di un meteorite caduto a dicembre 2012 in un campo di riso presso Polonnaruwa, nell’Isola di Sri Lanka. Il gruppo di ricercatori, del quale faceva parte anche Chandra Wickramasinghe, sottopose i frammenti a una serie di test condotti presso laboratori dell’Università di Cardiff e di Gottinga, tra i quali l’analisi degli isotopi dell’ossigeno, la diffrazione dei raggi X e l’osservazione al microscopio elettronico. Dall’insieme delle analisi compiute, gli autori dello studio conclusero che i frammenti analizzati facevano parte certamente di un meteorite di origine cometaria e contenevano inclusioni fossili di natura biologica non contaminate dall’ambiente terrestre. A loro parere, una delle strutture fossili osservate poteva essere un’istricosfera, cioè una specie oggi estinta di microscopica alga marina dotata di flagelli, appartenente ai Dinoflagellati. I flagelli piccoli e sottili del presunto fossile proveniente dallo spazio erano interpretati dai ricercatori come prove indicanti la permanenza in un ambiente a bassa gravità e un rapido processo di congelamento e disseccamento.

Evoluzione guidata dai retrovirus?

Nella visione cosmica della vita propria dei “panspermisti”, i virus, e in particolare i retrovirus, rivestono un’importanza primaria. I virus sono “macchine” biologiche straordinariamente efficaci e, al contempo, incredibilmente piccole: hanno dimensioni nell’ordine delle decine o centinaia di nanometri, spesso minori della lunghezza d’onda della luce visibile. Sono composti da filamenti di acidi nucleici, DNA o RNA, protetti da un guscio proteico detto capside. Sono essenzialmente dei parassiti, in grado di introdursi in ogni tipo di cellula vivente e di riprogrammarla per i propri scopi, cioè per la massima diffusione possibile dell’agente virale, spesso a danno della salute e della stessa sopravvivenza dell’ospite. Organismi di confine tra la vita e il mondo inorganico, i virus racchiudono in uno spazio minuscolo una sorprendente densità d’informazioni e un altrettanto sorprendente potere di controllo sul mondo vivente. Da questo punto di vista, i retrovirus rappresentano una vera eccellenza. Una volta penetrato in una cellula vivente, un retrovirus usa l’enzima DNA polimerasi per generare DNA a partire dal proprio genoma, racchiuso in un filamento di RNA: è l’inverso di quanto accade normalmente nelle cellule, all’interno delle quali è il DNA la fonte da cui origina la produzione di RNA (si chiamano ‘retrovirus’, proprio per via di questo modo inverso di procedere). Una volta prodotto il DNA all’interno della cellula ospite, l’enzima integrasi provvede ad integrare il pezzo di codice genetico prodotto dal retrovirus nel DNA originario dell’ospite. A questo punto il gioco è fatto: ad ogni successiva replicazione di quella cellula, il virus, che da quel momento in poi non è più un retrovirus ma un provirus, sarà replicato direttamente dal DNA della cellula ospite. Se la cellula infettata è un gamete, cioè una cellula sessuale, allora il virus si diffonderà a macchia d’olio nelle generazioni successive, subordinando gli scopi degli organismi infettati ai propri.
Per via della loro piccolezza e densità d’informazione e, soprattutto, per la loro capacità di assumere il controllo sugli organismi viventi, i virus, e in particolare i retrovirus, sono considerati dai fautori della panspermia come gli strumenti ideali per spiegare come l’evoluzione della vita sulla Terra possa essere influenzata da organismi provenienti dallo spazio. L’ipotesi della panspermia non prevede, infatti, che la vita sia stata portata una tantum sulla Terra dalle comete e si sia poi evoluta qui in totale isolamento. Prevede, invece, un continuo apporto di materiali biologici dallo spazio, durato per tutta la storia della vita sul nostro pianeta, con profonde influenze sulla direzione che l’evoluzione ha preso per molte specie viventi. Nello studio in corso di pubblicazione sulla rivista Progress in Biophysics and Molecular Biology, Steele e colleghi rispondono a quella che è la critica più ovvia che viene in mente di fronte a una simile idea, ovvero: “Come può un virus proveniente dallo spazio conoscere in anticipo rispetto alla sua venuta qui la gamma di organismi disponibili, con i quali esso può interagire? […] La risposta corretta a questa domanda [è]: i virus che si originano in un contesto cosmico e l’evoluzione sulla Terra sono inestricabilmente intrecciati” (E. J. Steele et al., Cause of Cambrian Explosion — Terrestrial or Cosmic?, 22018).
Nell’appendice A dello studio l’idea che vi sia una correlazione di origine cosmica tra ogni forma di vita viene chiarita e precisata: “Le prove inerenti la biologia terrestre che abbiamo discusso in questo articolo suggeriscono che l’intero insieme dei pianeti abitabili nella galassia costituisca una singola biosfera interconnessa. Da questo punto di vista, è lecito attendersi che forme di vita esistenti altrove esibiscano schemi convergenti di genotipi e fenotipi, soggetti alla selezione naturale (darwiniana e lamarckiana) all’interno di ciascun habitat planetario”. Anche ammettendo come dato un tale intreccio evolutivo universale tra i virus provenienti dallo spazio e gli organismi viventi da essi infettabili, è però inevitabile chiedersi come facciano i virus trasportati dalle comete a sopravvivere per milioni di anni, esposti a gelo, radiazioni e bombardamenti di particelle cariche. A questa critica, gli autori dello studio replicano che: “Batteri e virus incorporati all’interno di grani di roccia, materiale carbonioso o ghiaccio sono protetti efficacemente dal danno da radiazioni e possono rimanere pienamente vitali per milioni di anni nelle condizioni dello spazio. Microorganismi come i virioni [virus completi di capside], completamente congelati all’interno di corpi cometari, potrebbero rimanere vitali a tempo indeterminato e certamente per tempi cosmologici”. E come la mettiamo con il calore infernale generato dall’ingresso in atmosfera di un corpo cometario o di un suo frammento? Come fanno i virus intrappolati in un bolide a superare lo shock termico e a ritornare vitali una volta giunti al suolo? Per questo — sostengono Steele e colleghi — bastano le dimensioni ridotte e l’enorme numero di esemplari disponibile. “L’estrema piccolezza dei virus implica che essi sono bersagli difficili sia per le radiazioni ionizzanti sia per gli impatti ad alta velocità durante l’ingresso in atmosfera. Ma, se anche la maggior parte degli esemplari finisse distrutta durante il viaggio nello spazio o all’arrivo sulla Terra, ce ne sono talmente tanti nel contesto cosmico da rendere le perdite non decisive: La loro capacità di replicazione significa che sono prodotti, ed esistono, in numero immenso su scale cosmiche; sicché essi (e in minor misura i loro rifornimenti cellulari) possono sopportare enormi perdite da inattivazione, conservando ancora un residuo di milioni di individui sopravvissuti, potenzialmente ancora infettivi”.
In definitiva, i sostenitori della panspermia credono che l’evoluzione della vita sulla Terra, compresa quella della specie umana, sia stata determinata, non solo dalla selezione naturale e dalle mutazioni genetiche in accordo con i principi del neodarwinismo, ma anche, e in misura notevole, da fattori esterni all’ambiente terrestre, che si inquadrano nel lamarckismo (dal nome del biologo francese Jean-Baptiste Lamarck): l’ipotesi, cioè, che le caratteristiche acquisite da un individuo nel corso della propria vita siano trasmissibili geneticamente alla sua progenie. Nel quadro teorico della panspermia, virus provenienti dallo spazio sarebbero i vettori, non solo di drammatiche epidemie come l’influenza spagnola o l’HIV, ma anche di nuove e inaspettate direzioni prese dall’evoluzione dei viventi, per reagire alle infezioni virali.

Polpi extraterrestri

Un possibile caso di evoluzione dirottata verso esiti nuovi e sorprendenti dall’azione di virus provenienti dallo spazio è, secondo lo studio già più volte citato, il polpo. Risalendo nella storia evolutiva della sottoclasse Coleoidea, alla quale il polpo appartiene, fino agli antenati ancestrali, i nautiloidi, fioriti nel tardo Cambriano intorno a 500 milioni di anni fa, si ha quasi l’impressione che il polpo sia un innesto proveniente dal futuro, per la sua sorprendente e improvvisa diversità rispetto alle specie che lo hanno preceduto e con le quali pure mostra affinità: “Il suo grande cervello ed il sofisticato sistema nervoso, gli occhi simili a macchine fotografiche, il corpo flessibile, il mimetismo istantaneo grazie alla capacità di cambiare colore e forma sono solo alcune delle affascinanti caratteristiche che appaiono improvvisamente sulla scena dell’evoluzione. Non è facile ritrovare in alcuna forma di vita preesistente i geni trasformatori che hanno condotto dall’antenato comune nautilus (p.es. Nautilus pompilius) alla comune seppia (Sepia officinalis), al calamaro (Loligo vulgaris) e infine al polpo (Octopus vulgaris). È plausibile allora suggerire che essi sembrano essere stati presi in prestito da un lontano “futuro” in termini di evoluzione terrestre o, più realisticamente, dal cosmo in senso lato. Va da sé che ricorrere a un’origine extraterrestre per spiegare l’emergere di certe caratteristiche rappresenta un’aperta violazione del paradigma oggi dominante” (E. J. Steele et al, "Cause of Cambrian Explosion — Terrestrial or Cosmic?", 22018). I polpi sono senza dubbio animali eccezionali (e non solo per il loro involontario contributo alla buona riuscita di un’insalata di mare): possiedono una spiccata intelligenza, insolite abilità fisiche e sono dotati di un genoma incredibilmente complesso, che conta oltre 33.000 geni codificatori di proteine. Ma quali prove scientifiche è possibile addurre, per sostenere che rappresentano una discontinuità inspiegabile con i normali meccanismi dell’evoluzione darwiniana?
Se non proprio una prova decisiva, esiste un indizio quantomeno interessante. Nelle cellule di molti organismi viventi, compreso l’uomo, la trascrizione del DNA, che avviene attraverso lo RNA messaggero (mRNA), è soggetta in certi casi ad un’ulteriore attività di editing da parte di alcuni enzimi, che modificano lo mRNA trasformando l’adenosina in inosina. Questo meccanismo di editing appare nei calamari e soprattutto nei polpi con una frequenza elevatissima, unica rispetto a qualsiasi animale, uomo compreso, di cui sia stato studiato il trascrittoma. La cosa sorprendente, però, è che tale meccanismo di editing dello mRNA non si è conservato nel cefalopode che discende direttamente dal lontano antenato comune di calamari e polpi, cioè il nautilus. Per Steele e colleghi, questa importante differenza qualitativa nell’espressione genica è la prova che polpi e calamari rappresentano un improvviso salto evolutivo, inspiegabile per mezzo dei convenzionali processi di modificazione genica previsti dal neodarwinismo. Da cosa deriva allora la loro diversità, per i sostenitori della panspermia? Da apporti biologici provenienti dal cosmo, naturalmente. Per esempio, l’evoluzione dal calamaro al polpo è compatibile, secondo gli autori dello studio sopra citato, con una suite di geni inseriti da virus extraterrestri. Ma una spiegazione ancora più convincente, secondo questo gruppo di ricercatori, è che sia giunto sul nostro pianeta in un lontano passato un intero gruppo di geni extraterrestri già perfettamente assemblato e vitale: nulla di meglio, in questo caso, che ipotizzare l’arrivo in massa sulla Terra, intorno a 275 milioni di anni fa, di embrioni di polpo, crioconservati in una o più comete o nella loro scia di detriti, sopravvissuti fortunosamente grazie a un atterraggio morbido e finiti nel loro habitat naturale: l’acqua del mare.
L’idea che embrioni di polpo possano essere giunti sulla Terra sani e salvi, a bordo di una cometa che li ha conservati sotto ghiaccio, integri per chissà quanti milioni di anni, suona a dir poco fantascientifica. Ma idee simili sono al cuore dell’ipotesi della panspermia. Per i sostenitori di tale teoria, lo spazio cosmico è un unico, immenso habitat, nel quale organismi minuscoli ma estremamente resistenti come virus e batteri possono non solo sopravvivere, ma prosperare moltiplicandosi senza fine, anche nelle condizioni estreme di temperatura e irradiazione dei banchi di polveri interstellari, dispersi nello spazio aperto intorno a stelle e sistemi planetari.

Batteri interstellari ed estinzioni di massa

A proposito dell’incredibile potere di replicazione dei batteri, nel libro “Astronomical origins of life” del 1999, Hoyle e Wickramasinghe scrivevano: “Date appropriate condizioni per la replicazione, un tipico tempo di raddoppiamento per dei batteri varia tra le due e le tre ore. Potendo disporre di una fornitura continua di nutrienti, un singolo batterio iniziale potrebbe generare una progenie di 2⁴⁰ batteri in 4 giorni, producendo una coltura delle dimensioni di una zolletta di zucchero. Continuando per altri 4 giorni, la coltura, che ora conterrebbe 2⁸⁰ batteri, avrebbe le dimensioni di uno stagno. Altri 4 giorni e i risultanti 2¹²⁰ batteri avrebbero la scala dell’Oceano Pacifico. Ancora 4 giorni e i 2¹⁶⁰ batteri avrebbero una massa paragonabile a quella di una nube molecolare come la Nebulosa di Orione. E con soli altri 4 giorni, per un totale di 20 giorni dall’inizio, la massa batterica sarebbe pari a quella di un milione di galassie. Nessun processo abiotico possiede un potere replicativo sia pure lontanamente paragonabile a quello della matrice biologica”. Hoyle e Wickramasinghe erano convinti che le nubi di polveri interstellari brulicassero letteralmente di vita microbica, la cui firma, secondo loro inconfondibile, era nitidamente distinguibile negli spettri di molti oggetti astronomici, sui quali Chandra Wickramasinghe in particolare aveva condotto numerose ricerche. Per esempio, lo spettro di una sorgente visibile nell’infrarosso, chiamata GC-IRS7, situata presso il centro galattico, risultava perfettamente sovrapponibile, punto a punto, con le righe di assorbimento osservate in laboratorio, prodotte da esemplari disseccati del batterio Escherichia coli. Secondo i dati forniti dai due autori in “Astronomical origins of life”, la massa totale di materiale biologico di origine batterica, ghiacciato e disseccato, che si trova disperso nelle nubi di polveri interstellari della Via Lattea ammonta al valore formidabile di 10³⁶ kg: qualcosa come 500.000 volte la massa del Sole.
Se è così, allora la vita è disseminata nello spazio in quantità industriale: bisogna solo saperla riconoscere. E le prove accumulate negli ultimi anni, che indicano in modo univoco che esiste nella nostra galassia un numero stratosferico di pianeti potenzialmente abitabili, hanno segnato per i “panspermisti” un ulteriore punto a favore della loro teoria. Se, infatti, i pianeti abitabili sono tanti e la vita può viaggiare dall’uno all’altro trasportata dalle comete o anche solo da piccoli frammenti meteorici, allora non c’è bisogno che nasca in modo indipendente, per abiogenesi, su ciascun pianeta abitabile, cosa ritenuta — come abbiamo visto — assurdamente improbabile. Nell’ottica della panspermia, i pianeti non sono più da considerarsi come isole sperdute nello spazio, separati gli uni dagli altri da un abisso di vuoto invalicabile, ma piuttosto come stazioni di transito di una sterminata rete di comunicazioni cosmiche, resa possibile dall’esistenza di un numero astronomico di vettori di materiale biologico in perenne movimento: le comete. Parlando appunto di comete, nel già citato “Astronomical origins of life” Hoyle e Wickramasinghe scrivevano: “Una singola cometa è un oggetto piuttosto insignificante. Ma il nostro sistema solare ne possiede talmente tante, un numero forse superiore a cento miliardi, che la loro massa totale eguaglia le masse combinate dei pianeti esterni Urano e Nettuno: circa 10²⁹ grammi. Se tutte le stelle nane della nostra galassia sono similmente dotate di comete, allora la massa totale di tutte le comete nella nostra galassia, con le sue 10¹¹ stelle nane, diventa qualcosa come 10⁴⁰ grammi”.
Le stelle con i loro sistemi planetari orbitano intorno al centro galattico, spostandosi di continuo all’interno della galassia. Su scale cosmologiche, capita più volte che due stelle, muovendosi l’una indipendentemente dall’altra lungo le rispettive orbite galattiche, si passino accanto a distanze relativamente brevi. Ciò produce interazioni gravitazionali che perturbano i rispettivi sistemi di comete. Nasce quindi la possibilità che gruppi di comete legati a una delle due stelle che si “sfiorano” siano catturati dalla gravità dell’altra, e viceversa, con relativo scambio di (ipotetico) materiale biologico da un sistema stellare all’altro. In tal modo opera la panspermia, disseminando attraverso la galassia la vita che fiorisce nelle nubi di polveri interstellari, che riposa per milioni di anni sotto la superficie delle comete e che, infine, si deposita, con impatti violenti o attraverso una lieve pioggia di “detriti” biologici, sulla superficie di pianeti come la Terra. All’interno di questa cornice teorica, le estinzioni di massa causate dall’impatto devastante di oggetti di grandi dimensioni, come quello che causò la fine dei dinosauri circa 66 milioni di anni fa, sono come la sutura tra due capitoli successivi nel libro dell’evoluzione, una sutura cucita con il contributo di materiale biologico proveniente dallo spazio: una cometa che colpisce la Terra distruggendo i precedenti habitat, porta con sé anche la nuova vita che permette il successivo ripopolamento del pianeta, indicando nuove strade all’evoluzione. La grande e improvvisa esplosione di diversità biologica che si verificò nel Cambriano è spiegata dai sostenitori della panspermia esattamente in questo modo: “È ben noto che uno o più eventi di estinzione di massa si verificarono alla fine dell’Ediacarano, intorno a 542 milioni di anni fa, all’immediata vigilia dell’esplosione del Cambriano. La dimensione dell’estinzione di massa suggerisce il passaggio del nostro sistema solare attraverso una nube molecolare gigante, che perturbò le orbite di una moltitudine di comete di lungo periodo nella Nube di Oort, dirigendole verso il sistema solare interno e causando impatti con la Terra. Non ci vuole molta immaginazione per considerare l’evento o gli eventi di estinzione di massa del pre-Cambriano collegati all’impatto di una o più supercomete portatrici di vita, con la conseguente disseminazione sulla Terra di nuovi organismi cellulari e geni virali di origine cosmica. È anche possibile che si sia formata una complessa scia di detriti cometari, che causò molteplici impatti nel corso di un arco di tempo stimato in 25 milioni di anni, all’inizio dell’esplosione del Cambriano” (E. J. Steele et al., Cause of Cambrian Explosion — Terrestrial or Cosmic?”, 22018).

L'originale della vita e il Big Bang biologico

Alla base della teoria della panspermia c’è il rifiuto dell’abiogenesi. Come abbiamo visto nella seconda parte di questo articolo, Hoyle e Wickramasinghe calcolarono, secondo loro per difetto, in 1 su 10⁴⁰⁰⁰⁰ le probabilità che gli enzimi indispensabili alla chimica degli organismi viventi siano emersi nella loro totalità, completi e funzionali, al termine di un processo di accumulo puramente casuale di tentativi ed errori, avvenuto nelle condizioni della Terra primordiale. E gli enzimi sono solo uno degli “ingranaggi” necessari al funzionamento della “macchina” della vita. Se i loro calcoli sono corretti, allora potrebbe essere effettivamente insensato credere che la vita sia potuta emergere qui sulla Terra, nei camini idrotermali o altrove, solo grazie al tempo e alla presenza degli ingredienti giusti, assemblati e rimescolati di volta in volta in sequenze casuali. Senza un meccanismo forzato in grado di rendere inevitabile la rapida emersione della vita, il tempo trascorso tra la consolidazione della crosta terrestre e le prime testimonianze fossili di organismi viventi è davvero troppo poco, perché dall’astronomico numero di combinazioni possibili in cui una ventina di aminoacidi possono saldarsi tra loro in catene di polipeptidi siano venute fuori, perfettamente ordinate e funzionali, tutte le lunghissime catene di aminoacidi che formano le proteine e gli enzimi, essenziali per la struttura e il metabolismo degli organismi viventi. Ma rifiutare l’origine terrestre della vita espone la panspermia a quella che è stata, fin dall’inizio, la critica più forte e radicale contro questa teoria: l’aver semplicemente spostato — senza risolverlo in alcun modo — il problema dell’origine della vita dalla Terra a un luogo e un tempo imprecisati della storia dell’universo. Il biochimico Nick Lane, autore di un fortunato libro divulgativo sull’origine e l’evoluzione della vita sulla Terra, liquida la panspermia in una nota di poche righe, bollandola come irrilevante: Neppure il trasporto [dallo spazio] di cellule complete, sostenuto da Fred Hoyle, Francis Crick e altri, rappresenta una soluzione: sposta semplicemente il problema altrove. Potremmo non essere mai in grado di dire esattamente come la vita abbia avuto origine sulla Terra, ma possiamo esplorare i principi che devono governare l’emergere di cellule viventi qui o in qualunque altro luogo. La panspermia evita totalmente di affrontare quei principi, per cui è irrilevante [Nick Lane, “The Vital Question: Why Is Life the Way It Is?” (2015)].
Alla critica radicale di Nick Lane, i sostenitori della panspermia replicano che fissarsi con il considerare la Terra come l’unica sede possibile per l’origine della vita sul nostro pianeta significa rimanere ciechi di fronte all’evidenza di un cosmo biologicamente interconnesso: Non si tiene in nessun conto il fatto ormai riconosciuto che solo nella nostra galassia esistono centinaia di miliardi di pianeti abitabili, con separazioni medie dell’ordine di qualche anno luce. Scambi di materiale biologico tra pianeti adiacenti, e perciò una singola biosfera interconnessa, appaiono inevitabili. A nostro parere, in base alle prove attualmente disponibili, la cosa di gran lunga più probabile è che la vita sia emersa al di fuori della Terra alle origini stesse dell’Universo [E.J. Steele et al., “Cause of Cambrian Explosion — Terrestrial or Cosmic?” (2018)]. Ma quale soluzione dà la panspermia per l’origine cosmica della vita, oltre che rimandarla indietro nel tempo? Il problema centrale, come abbiamo visto, ha a che fare con la probabilità. La vita è un fenomeno così complesso e altamente organizzato, che, di fronte alla sua evidente esistenza qui sulla Terra, esistono solo due possibili alternative:

1) o considerarla un miracolo, la creazione ex novo di un Dio, idea che attiene però alla religione e non alla scienza;

2) considerarla il prodotto inevitabile di una serie sufficientemente lunga di tentativi casuali, operati in un ambiente acquatico sugli ingredienti base della vita: il carbonio innanzitutto, e poi, nell’ordine idrogeno, azoto, ossigeno, fosforo, zolfo, magnesio e altri ancora.

Per i fautori della panspermia, però, la probabilità che questi ingredienti si assemblino nel modo giusto per pura combinazione è così assurdamente piccola da richiedere condizioni eccezionali, che non sono mai esistite nell’universo, se si accetta il modello cosmologico standard, cioè il cosiddetto modello Lambda-CDM. In “The search for our cosmic ancestry” del 2014, ennesimo libro sulla panspermia scritto da Chandra Wickramasinghe, l’autore si domanda (pag. 25): È possibile che la vita si diffonda da un singolo luogo d’origine in una galassia fino a infettare l’intero Universo? Se prendiamo come riferimento l’universo locale, di cui fa parte la Via Lattea, la risposta alla domanda è no. Le distanze intergalattiche sono infatti troppo grandi e lo spazio si espande troppo rapidamente, perché la vita — trasportata dalle comete secondo l’ipotesi della panspermia — possa raggiungere ogni luogo dell’universo, partendo da una singola galassia. Il problema dell’orizzonte, cioè l’impossibilità fisica di comunicare con galassie che si trovano a distanze maggiori di quelle raggiungibili anche viaggiando alla velocità della luce, lo impedisce già in linea di principio. Ma anche considerando solo l’universo locale, la distanza massima percorribile da corpi portatori di vita (lanciati fuori dalla propria galassia d’origine grazie a fortunate interazioni gravitazionali), calcolata da Wickramasinghe in circa 10 megaparsec nell’arco di 10 miliardi di anni, è troppo bassa per produrre una vera panspermia. Purtroppo le cose non migliorano neppure se si suppone che la vita sia emersa molto presto nella storia dell’universo, in un’epoca in cui le distanze intergalattiche erano molto minori di oggi e il problema dell’orizzonte meno drammatico: Nelle cosmologie standard del Big Bang questo problema non risulterà alleviato neppure se si torna a un’epoca precedente dell’Universo. In tutti questi modelli cosmologici, la prima vita e la sua dispersione panspermica possono iniziare solo dopo che la formazione stellare è cominciata e le supernovae hanno prodotto e disperso gli elementi pesanti necessari per la vita. Secondo gli studi più recenti, ciò è accaduto probabilmente circa 500 milioni di anni dopo il Big Bang, quando l’Universo aveva circa il 5% delle sue dimensioni attuali e le distanze intergalattiche erano ridotte, di conseguenza, dello stesso fattore. I tempi di trasporto, i limiti di sopravvivenza e il vincolo dell’orizzonte, anche se minori, avrebbero ancora impedito una panspermia su scala cosmologica generale a partire da un’unica origine [C. Wickramasinghe, “The search for our cosmic ancestry”, 2014, pag. 26].
Serve allora una nuova cosmologia, perché possa aversi una vera panspermia universale: una cosmologia che consenta l’emersione della vita prestissimo, quando l’universo è ancora così piccolo, dopo il Big Bang, che le distanze intergalattiche non costituiscono più un problema insormontabile. Un modello totalmente alternativo alla cosmologia mainstream, ma perfetto per le esigenze della panspermia, in effetti esiste: è il modello HGD (Hydro-Gravitational-Dynamics Cosmology), sviluppato da Carl H. Gibson dell’Università della California a San Diego, un esperto di dinamica dei fluidi, e da Rudolph E. Schild, un astrofisico dello Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics. Nella cosmologia HGD, effetti di viscosità verificatisi subito dopo il Big Bang producono in soli 300.000 anni la formazione di proto-ammassi di gas che si suddividono e condensano in pianeti di massa terrestre: una quantità enorme di pianeti, più o meno 1.000 miliardi per ciascun proto-ammasso. Pianeti vicini si fondono dando origine alle prime stelle, che, accendendosi, rallentano o bloccano il processo di fusione grazie alla pressione di radiazione. Le stelle più massicce esplodono ben presto come supernovae, fecondando i vicinissimi pianeti con gli elementi necessari per la vita, sintetizzati nei loro nuclei e durante le esplosioni di supernova. Due soli milioni di anni dopo il Big Bang, i nuclei ferrosi e rocciosi dei pianeti ancora in via di condensazione si ricoprono di acqua liquida quando raggiungono la temperatura critica di 647 K (374 °C), grazie alla spaventosa pressione che grava sui loro oceani primordiali, coperti da estese atmosfere di idrogeno e di elio: La chimica organica comincia in questi pianeti comunicanti e nei loro oceani saturi di idrogeno e chimicamente fecondati. Il big bang biologico procede nei 10⁸⁰ o più oceani di acqua calda, schiacciati sotto atmosfere di idrogeno, finché gli oceani congelano a 32 F [0 °C] a 8 milioni di anni [dal Big Bang]: una zuppa primordiale di massa cosmologica. La panspermia cometaria intergalattica è potenziata dall’incremento di 10⁸ nella densità spaziale media delle galassie [C.H. Gibson & R.E. Schild, Journal of Cosmology, 2011]. Riassumendo: nella cosmologia HGD, non bisogna aspettare 500 milioni di anni perché si creino le condizioni per la vita. Tali condizioni si creano pressoché immediatamente, a 2 milioni di anni dal Big Bang, su uno sterminato numero di pianeti (10⁸⁰, cioè 1 seguito da 80 zeri), dotati di oceani di acqua liquida ricchi di nutrienti, nei quali le reazioni chimiche avvengono ad enorme velocità per le particolari condizioni di alta temperatura e pressione elevatissima. In queste condizioni ideali per l’emergere della vita, l’estrema vicinanza dei pianeti, separati gli uni dagli altri da poche unità astronomiche, favorisce gli scambi di materiale biologico attraverso le comete, creando una gigantesca zuppa primordiale interconnessa secondo i principi della panspermia: Queste condizioni ottimali si manterranno per 10 milioni di anni e non potranno mai più essere riprodotte, neppure lontanamente, in qualsiasi epoca cosmologica successiva [C. Wickramasinghe, “The search for our cosmic ancestry”, 2014, pag. 27].

Un Universo infinito e increato

dunque questa la risposta definitiva dei sostenitori della panspermia al problema dell’origine della vita? Un big bang biologico reso plausibile dal modello cosmologico HGD? Non necessariamente. Anche le strutture più piccole che regolano la chimica dei viventi sono così complesse da rendere estremamente improbabile, secondo Wickramasinghe, che si siano formate per abiogenesi. Egli calcola, per esempio, che le probabilità che i ribozimi (filamenti di RNA in grado di catalizzare reazioni chimiche come gli enzimi), si siano formati per tentativi ed errori da un sostrato di materia non vivente siano, anche a valutarle per difetto, non più di 1 su 10¹⁸⁰. Ciò significa che occorrerebbe una sequenza di almeno 10¹⁰⁰ Big Bang di un universo regolato dalla pur favorevolissima cosmologia HGD, per consentire a una probabilità così minuscola di realizzarsi. In definitiva, la nascita della vita dalla materia non vivente è così assurdamente improbabile — ritiene Wickramasinghe — che restano solo due ipotesi percorribili, per giustificare come quella infinitesima probabilità si sia realizzata almeno una volta (cosa che deve essere accaduta, visto che siamo qui a parlarne):

1) il sostrato della realtà è un multiverso e, per puro caso, ci è capitato di nascere in uno di quegli universi, forse l’unico in assoluto, in cui l’evento improbabilissimo dell’emersione della vita dalla materia non vivente si è verificato;

2) viviamo in un universo aperto, eterno e infinito, secondo il modello cosmologico detto dello stato quasi-stazionario.

Delle due possibilità, quella preferita a livello filosofico da Wickramasinghe è la seconda, e non per caso. Il modello cosmologico dello stato quasi stazionario fu proposto infatti dal suo collega di una vita Fred Hoyle e da Halton Arp nel 1990, e fu poi approfondito in uno studio del 1993, frutto di una collaborazione tra Hoyle, Geoff Burbidge e Jayant V. Narlikar. Il modello dello stato quasi stazionario è una sorta di upgrade del principio cosmologico prediletto da Hoyle e Wickramasinghe: lo stato stazionario, cioè un universo eterno, non creato, infinito, nel quale la legge di espansione scoperta da Hubble era spiegata con la creazione continua di nuova materia, così da mantenere stabile la densità media dell’universo. Quel modello divenne insostenibile dopo la scoperta della radiazione cosmica di fondo e dopo che osservazioni telescopiche profonde avevano dimostrato che l’universo evolveva nel tempo e che le galassie primordiali erano differenti dalle galassie dell’universo locale. Lo stato quasi-stazionario risolve i problemi del modello precedente, trasformando il concetto di Big Bang. Non si tratta più di un evento unico, in cui la totalità dell’universo viene all’esistenza una volta per tutte, ma di un evento ricorrente, che rifornisce periodicamente l’universo di nuova materia: Il modello è basato sull’idea che la creazione ha luogo in piccoli big bang, ciascuno dei quali coinvolge circa 10¹⁶ masse solari distribuite su tutto lo spazio e il tempo, in un universo che di per se stesso non ha un inizio [F. Hoyle et al., Astrophysical Journal, 410, 2, 1993]. Ecco la chiave di volta che risolve tutti i problemi della panspermia! In un universo eterno, che non ha un inizio, ma che esiste da sempre e per sempre, c’è già stato tempo a sufficienza perché anche l’assurdamente improbabile si verificasse: in una pozza di acqua calda ricca di tutti i nutrienti necessari, su qualche sconosciuto pianeta perso nella notte dei tempi, tutti gli “ingranaggi” della “macchina” della vita si disposero finalmente nell’ordine giusto, dando inizio a un processo che da allora non si è più fermato e che, di pianeta in pianeta, di cometa in cometa, ha colonizzato ogni angolo del cosmo. O forse il “miracolo” si è ripetuto più volte e forse più volte il ciclo della vita si è interrotto e poi è ripartito: chi lo sa? Tutto, del resto, è possibile, se il tempo a disposizione è infinito…
È a questo punto che l’idea della panspermia comincia a mostrare la sua natura più profonda. Oltre il principio cosmologico e tutta la scienza elaborata a supporto del modello, ci sono un’idea filosofica e quasi un sentimento religioso: Da qualche parte, nell’infinita quantità di materia che esiste in una cosmologia aperta, persino ciò che è super-astronomicamente improbabile accadrà, e si diffonderà fino a diventare una parte integrante e sempre presente del cosmo. Ai fini pratici, ciò vuol dire che non c’è mai stato un tempo in cui non ci sia stata vita. Intuitivamente, possiamo pensare che ciò non sia vero, ma, se lo facciamo, si tratta di una supposizione istintiva di natura culturale. Un buddista, per esempio, potrebbe pensare istintivamente che la vita sia sempre esistita dall’eternità [C. Wickramasinghe, “The search for our cosmic ancestry”, 2014, pag. 28]. Ciò che Chandra Wickramasinghe intendeva dire nel brano citato è che, in un universo eterno, il tempo cosmologico che separa la prima apparizione della vita dal nostro presente è con ogni probabilità così inconcepibilmente lungo da perdere significato: il che equivale a dire che la vita esiste da sempre, anche se, a livello intellettuale, pensando come scienziati, dobbiamo postulare che ci sia stata un’epoca in cui invece non esisteva. Nell’ottica della panspermia, per ciò che a noi umani è dato sapere, la vita, non solo esiste da sempre, ma si è sempre riprodotta solo a partire da una vita precedente, mai dalla pura materia non vivente.

Fonte: https://spazio-tempo-luce-energia.it/il-mi...ca-81e153a47bfd

Edited by Sojuz Koba 1961 - 24/2/2024, 18:25
 
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