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LA CONQUISTA DELLO SPAZIO 3a parte

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view post Posted on 24/11/2004, 23:37     +1   -1
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LA CONQUISTA DELLO SPAZIO
3a parte
by Fox

Si arriva fino al punto di dire (riassumiamo in due righe una delle relazioni) che il minisatellite, una volta immesso nell’ellittica, non risulta più controllabile da terra. Non solo, ma si parla anche del codice delle telemisure, cioè del «linguaggio» di cui il satellite si servirà per comunicare a terra le proprie informazioni.
C’è di più. Le relazioni del centro di calcolo orbitale all’osservatorio dell’università di Cambridge se non sono di dominio pubblico poco ci manca essendo in ogni caso accessibili agli specialisti.
Vogliamo aggiungere un’ultima informazione?
La notte sull’8 dicembre 1956 un razzo sperimentale Viking della lunghezza di 13 metri s’innalza da Capo Canaveral sotto l’occhio compiaciuto di numerosi giornalisti invitati per l’occasione, sempre... a dispetto delta riservatezza scientifica.
Nell’esperienza, compiuta alla presenza della stampa, viene liberato a quota 80 chilometri, un piccolo satellite (anche se, data la quota, il termine è improprio) munito di ricetrasmittente che inizia subito la sua attività. Inoltre, ai giornalisti che sono intervenuti viene concesso di fotografare i laboratori per il montaggio di satelliti artificiali e la cosa è sintomatica, posto che fra l’8 dicembre 1956 di cui stiamo parlando e il 4 ottobre 1957 — data in cui l’Unione Sovietica manda in orbita il primo Sputnik —trascorrono 10 mesi, sufficienti a una valida équipe di tecnici e scienziati per elaborare e perfezionare un progetto partendo da dati già acquisiti.
Proprio sulla base di queste considerazioni vi è stato chi ha suggerito l’ipotesi di un riuscito colpo spionistico:
in altre parole i russi si sarebbero impadroniti dei segreti del Vanguard e del minisatellite elaborandoli successivamente; così come, d’altronde, si verificherà per il famoso supersonico Concorde presentato dai sovietici con un discreto anticipo e con diverse migliorie rispetto all’... identico prototipo franco-britannico.
Indubbiamente anche nella ricerca scientifica vige il principio che chi più tace meglio opera e questo senza togliere alcun merito — dato che noi ci limitiamo a esporre le diverse ipotesi o tesi dei vari commentatori —agli scienziati russi.
Nella corsa allo spazio con l’intervento massiccio dell’Unione Sovietica si inserisce evidentemente l’elemento strategico, come già era successo nei progetti V 2, o A 4 che dir si voglia, impiegati poi dalle autorità militari tedesche per fini esclusivamente bellici.
Senza alcun dubbio tutti i governi interessati hanno dapprima caldeggiato la costruzione di satelliti artificiali proprio in relazione alla possibilità che essi contribuissero allo spionaggio dal cielo e in particolare da altezze non raggiungibili da nessun ordigno di distruzione. E che il fattore spionistico non vada trascurato è dimostrato dal celebre caso dell’aviatore Powers, il cui aereo speciale U 2 è stato costretto a un disgraziatissimo atterraggio in territorio sovietico.
Per quanto ci riguarda però, e soprattutto ai fini della corsa allo spazio, si deve aggiungere che l’elemento agonistico fra le due superpotenze accelera alquanto il processo di evoluzione dell’ astronautica.
Dallo Sputnik alla cosiddetta navetta spaziale o Shuttle Enterprise del 1977, c’è un arco di soli vent’anni che sono pochi per qualsiasi scienza ma non, come si vede, per l’astronautica.

I minisatelliti degli anni ‘50 hanno un potere riflettente tale che li fa apparire, quando si trovano al perigeo, come stelle di sesta grandezza; quando si trovano all’apogeo vengono visti come stelle di nona grandezza e pertanto individuabili solo con l’ausilio di strumenti. D’altra parte anche al momento della sua massima visibilità il minisatellite sfreccia letteralmente nel cielo, percorrendo i 1800 dell’emisfero visibile in un paio di minuti; così con un telescopio tipo Schmidt si può avere una corretta riproduzione fotografica della traccia lasciata nello spazio.
Quando osservare il satellite? L’ora ideale è il crepuscolo, allorché la sfera di metallo è ancora investita dalla luce solare e quando il cielo si è fatto sulla terra sufficientemente nero. lì che spiega perché pochi, a suo tempo, abbiano visto sfilare come stelle cadenti i vari Sputnik o Explorer. Si parla sempre di osservazioni di dilettanti, perchè al tempo dello Sputnik l’organizzazione delle stazioni di rilevamento dei passaggi è affidata a un astronomo del calibro di Spitz.
Ogni satellite artificiale ruota nello stesso senso della terra.
Da qui la necessità che lo si osservi da ovest verso est.
Sono, queste, «regole» che si apprendono fin da quando viene lanciato lo Sputnik, sul vettore del quale bisognerebbe dire ancora alcune cose: in primo luogo sul suo peso, nove volte superiore a quello del «collega» americano Vanguard. Si sa che il primo stadio raggiunse un’altezza di 80 chilometri prima di staccarsi e di cadere a terra dopo aver impresso al razzo una velocità superiore ai 7.500 chilometri all’ora. lì secondo stadio spinse ciò che rimaneva del razzo dopo il distacco del booster fino ai 500 chilometri di quota imprimendo una velocità di oltre 10.000 chilometri/ora, Il terzo stadio, infine, spinse l’involucro contenente il satellite fino a 900 chilometri di quota imprimendo una velocità di quasi 29.000 chilometri/ora. A questo punto il satellite fu liberato e il terzo stadio continuò con esso la sua rivoluzione intorno alla terra.
Adesso bisogna aggiungere che le autorità sovietiche, come d’altra parte è loro costume invalso, hanno sempre lasciato filtrare a poco a poco le notizie riguardanti le loro realizzazioni; per cui del fatto che il terzo stadio del vettore CH 9 continuasse a orbitare attorno alla terra non si parlò che tre settimane dopo il lancio. Altri particolari furono centellinati e lasciati cadere qua e là, fra un comunicato e l’altro, finché solo dopo mesi si ebbe un quadro generale, ancorché approssimativo, della vicenda.
Agli inizi i sovietici non fornirono neppure i dati riguardanti la traiettoria che però furono ottenuti, in 21 secondi, dall’elaboratore dell’università di Cambridge(1) (il tempo impiegato non deve stupire, dato che siamo nel ‘57 e l’elettronica non ha ancora compiuto i passi da gigante che farà negli anni ‘60).
In compenso radio Mosca annunciò le frequenze radio sulle quali poteva essere sentito il bip-bip del proprio satellite.
Grazie a queste indicazioni diversi furono i radioamatori che riuscirono a registrare le emissioni, dall’arcano significato, del satellite.
Lo Sputnik 1 è ancora in orbita che i sovietici, come si è detto, mandano in cielo lo Sputnik 2.
L’impresa non è da sottovalutarsi. Lo Sputnik 2 pesa 6 volte di più del primo, arrivando a 508,300 chilogrammi; ha una forma completamente diversa non essendo più sferico ma tronco-conico e per di più ha un abitacolo in cui, come abbiamo preannunciato, è stato immesso un cane. La cagnetta Laika, questo è il nome del primo passeggero dello spazio, non è il primo esemplare canino ad affrontare il duro compito, dato che a suo tempo il professor Blagonravov, uno dei padri del programma spaziale russo, aveva inviato a 200 chilometri d’altezza la sua cagnetta Maliska tornata poi sana e salva a terra.
Viceversa per Laika non ci sono speranze di salvezza; il cane è destinato ad essere sacrificato, a morire nel suo abitacolo per esaurimento della scorta di ossigeno. Ma questo sacrificio è estremamente produttivo per tutto un complesso di osservazioni che vanno dalle accelerazioni sopportate in fase di decollo al comportamento di un organismo nello spazio in stato di imponderabilità.
lì vettore dello Sputnik 2 è un CH 10 a tre stadi e immette il satellite lungo 6,3 metri in un’orbita dall’apogeo di i .660 chilometri e dal perigeo di 211 chilometri, con un’inclinazione di 650 sul piano
dell’equatore. lì tempo di rivoluzione all’inizio è di 103 minuti e la trasmittente emette sull’onda di 7,5 metri o di 1 5 metri come già si è verificato per lo Sputnik 1.
I teorici occidentali fanno un gran parlare del CH 10. Dicono che il suo peso, per poter inviare in orbita un satellite come lo Sputnik, non deve essere stato inferiore alle cinquecento tonnellate (cioè come un convoglio ferroviario). Ma c’è chi sostiene che il CH 10 non abbia superato i 175.000 chili, cifra ottenuta analizzando il vettore CH 9 che aveva messo in orbita lo Sputnik 1.
In più c’è il problema della spinta. Sembra che il primo stadio abbia impresso al treno spaziale una spinta paurosa: 200.000 chilogrammi.
Il dilemma del combustibile impiegato dai sovietici è destinato ad accendere le fantasie. Non si vuole ammettere, infatti, che oltrecortina (non dimentichiamo che siamo in anni di guerra fredda) anche in fatto di combustibili siano stati raggiunti livelli superiori a quelli statunitensi. Per far traboccare il vaso, l’esperimento Sputnik 2 dimostra che i russi hanno risolto il problema del ricambio dell’ossigeno, dell’eliminazione dell’anidride carbonica e dell’alimentazione dell’animale, il quale, prima di essere installato a bordo di un vettore, ha già subito un allenamento in tal senso.
Che il cane sia allenato lo si vede dal fatto che sopravviverà qualche settimana; segno che i sovietici, pur in uno spazio così esiguo, sono arrivati a risolvere anche il non indifferente problema dell’eliminazione o della neutralizzazione dei rifiuti organici. La durata della vita della povera Laika è poi un’ulteriore dimostrazione della bontà del «corso» di allenamento; solo un cane perfettamente allenato può resistere così a lungo in condizioni di assoluta immobilità — chiuso nei lacci della tuta spaziale, con la testa infilata nel casco trasparente — senza lasciarsi morire di crepacuore o rifiutarsi di prendere il cibo.
Comunque, al momento della disintegrazione dello Sputnik 2 (avvenuta nell’aprile del 1958) la cagnetta Laika è indiscutibilmente deceduta da tempo.
Appositi sensori collegati al corpo del cane e comunicanti a terra i dati relativi hanno permesso di stabilire giorno per giorno il comportamento dell’animale, quale il suo battito cardiaco, la frequenza della sua respirazione, ecc.
Con il successo Sputnik 2 la marina degli Stati Uniti — madrina del progetto Vanguard — accusa un durissimo colpo; è noto quale campanilismo o spirito di corpo divida l’esercito dall’aviazione o dalla marina e come ciascuna arma si consideri la migliore in senso assoluto nei confronti delle altre; così esiste un’aviazione di marina e una dell’esercito, e sussiste, naturalmente, un’aeronautica con i suoi velivoli; ma i Marines non sono che fucilieri di marina, ovvero truppe che altrove sarebbero inquadrate nell’esercito, mentre quest’ultimo ha i suoi uomini di patrol boats che altrove porterebbero la divisa dei marinai... Così, dopo lo scacco Vanguard, viene rispolverato il progetto von Braun-Orbiter patrocinato... dall’esercito.
Per von Braun non dev’essere stata certo una novità trovarsi nel mezzo delle liti fra le diverse armi. Ricordiamo infatti che a suo tempo furono ufficiali dell’esercito tedesco a finanziare Peenemùnde. Ma il ritardo accusato dalla marina, presa così clamorosamente in contropiede, fa sì che nulla di quanto elaborato sotto il suo patrocinio sia considerato degno di attenzione. Come vettore si scarta pertanto il Vanguard per anteporgli un altro missile, lo Jupiter C, che come booster utilizza un razzo Redstone. Lo Jupiter C è più rustico, ma più efficace del Vanguard e soprattutto è nelle mani di chi con razzi simili ha trascorso tutta la propria vita, lì progetto Jupiter viene subito abbreviato in Juno, nome che verrà poi convertito in quello di Explorer.
lì suo blast-off si ha il io febbraio 1958 alle 4,40, ora dell’Europa Orientale. La base di lancio è quella di Capo Canaveral, gli stadi sono quattro, la forma è cilindrica e il satellite, anch’esso cilindrico, è lungo 2 metri e ha un diametro di 15 centimetri, lì peso del satellite è di soli 14 chilogrammi, un peso mosca rispetto a quelli sovietici ma sempre rispettabile se messo a paragone con la sfera del Vanguard che si leverà ugualmente in cielo il 17 marzo del ‘58 e che farà segnare sulla bilancia un modesto chilo e 46 grammi.
lì periodo di rivoluzione dell’Explorer i è di 114 minuti e l’inclinazione della sua orbita rispetto al piano dell’equatore e di soli 350.
Subito qualche cronista battezza il satellite Explorer, la «matita» perché in effetti della matita ha la forma e l’aspetto.
L’apogeo è di 3.200 chilometri, il perigeo di 368. La «matita» ha però un modernissimo equipaggiamento, comprese delle griglie metalliche per la segnalazione di urti di micrometeoriti.
lì distacco del primo stadio è previsto alla quota di 60 chilometri, a circa due primi dal lancio. Il distacco del secondo stadio è calcolato a raggiungimento della quota di 220 chilometri, mentre l’ultimo stadio è destinato a rimanere solidale alla «matita».
L’Explorer ruota su se stesso per ragioni di stabilità a 750 giri al minuto. E dotato di due radiotrasmittenti che trasmettono su frequenza di i 08 e 108,3 megacicli al secondo, tali da poter essere, in particolare la prima, captate a terra con relativa facilità; anzi, l’emittente numero uno ha una potenza tale da poter essere udita anche da semplici radioamatori.
Destinato soprattutto alle misure della temperatura, l’Explorer è anche dotato di apparati per la registrazione delle radiazioni cosmiche ideati da van Allen, lo scopritore delle celebri fasce che portano il suo nome. lì booster è stato costruito dalla Rocketdyne, una sezione della North American Aviation Company, una delle più celebri industrie astronautiche statunitensi, mentre il sistema di guida e di controllo è della Ford.
Il secondo stadio è della Reynolds, una società dell’Alabama, mentre per gli altri due stadi, entrambi dei VAC Sergeant, ha collaborato il politecnico di Pasadena. Infine l’ogiva del razzo è di una società di Cincinnati.
L’Explorer I, lanciato come si è detto il 10 febbraio (ma il 31 gennaio calcolando l’ora secondo il fuso americano), alla fine del 1959 risulterà ancora in orbita.

Nel marzo— come si è anticipato— e precisamente il giorno 17 alle ore 7,16, si innalza da Capo Canaveral il Vanguard, sesto tentativo effettuato dalla marina americana per rimettersi alla pari con i progressi sovietici. E vero che il Vanguard si presenta con un’etichetta innocua, cioè come progetto di satellite scientifico nell’ambito del programma dell’anno geofisico internazionale, ma è anche vero che su di esso fondano le più vive speranze molti militari. Tre stadi (il suo vettore ha la sigla Test Vehicle n. 4, ovvero prova n. 4), privo di piani di coda, il razzo Vanguard si presenta solo apparentemente con le carte in regola; quanto al satellite, dello stesso nome, esso è dotato di batterie solari al silicio, di due emittenti che emettono su i 08 megacicli circa e di strumenti per la rilevazione della temperatura e dei raggi cosmici.
Alla fine del 1959 anche il Vanguard risulterà ancora in orbita.
Il 26 marzo 1958 gli Stati Uniti ripetono il lancio Explorer con la missione dell’ Explorer III, essendo fallita quella dell’Explorer lì il 5 marzo, per un difetto di lancio e non inerente al satellite.
Infatti il blast-off avviene nelle ore più calde della giornata con surriscaldamento del razzo e repentino raffreddamento dello stesso a circa 90 chilometri d’altezza, il che deve in un certo modo influire sulle sue prestazioni.
Anche l’Explorer III alla fine del 1959 sarà ancora in orbita. Da segnalare in più una sua carta vincente; l’essere dotato di una memoria magnetica capace di ritrasmettere i dati sui raggi cosmici, concepita dal dottor Ludwig dell’università dello Iowa.
Il primo satellite artificiale della storia dell’umanità avrà, come è logico, una lunghissima serie di emuli e imitatori, satelliti per più svariati impieghi e per le più diverse destinazioni elaborati e mandati in orbita prevalentemente dalle due superpotenze, ma concepiti e costruiti anche da nazioni minori interessate ai singoli aspetti della ricerca spaziale.
C’è per esempio in Inghilterra, a Goonhilly Downs, una stazione ricevente per i segnali emessi dai satelliti artificiali che è una delle prime che siano state costruite al mondo e che è rimasta in funzione a lungo soprattutto al tempo del famoso Telstar I del 1962. L’hanno battezzata, questa stazione, la «tana del ragno» per un buffo portafortuna che pende dal soffitto quasi di fronte agli schermi televisivi per il controllo dei passaggi: è, infatti, un grosso ragno di metallo munito di sei lunghe zampe. lì Telstar, che fu il primo satellite per comunicazioni con collegamenti istantanei, serviva a inviare i segnali televisivi. Si sa infatti che le onde televisive sono cortissime e hanno un percorso rigorosamente rettilineo; considerata la sfericità della terra, risulterebbe impossibile far loro compiere l’arco di un emisfero senza reti di trasmettitori colossali, numerosissimi e costosissimi. Invece con un minisatellite, proprio come il Telstar, le cui dimensioni non superavano il metro di diametro era agevole ricevere le stesse immagini contemporaneamente in Europa e in America.
Un’altra dote del Telstar era quella di trasmettere a ripetizione facendo l’ufficio di migliaia di telescriventi. Logico quindi che l’esempio del satellite per trasmissioni radiotelevisive dovesse essere seguito, e in fitta schiera, da altri.
Abbiamo parlato prima delle piccole nazioni inserite nel gioco delle due grandi. Ebbene, nello stesso 1962, e precisamente il 28 settembre, il Canada lanciava, grazie alla collaborazione di un vettore americano, il satellite Alouette destinato a raccogliere dati sulla ionosfera.
E poi nella serie infinita basterebbe scegliere a caso per trovare dei dati degni di essere riportati. Per esempio si è avuto un satellite per misurare i gas ricoprenti la terra determinandone la composizione, la densità, la temperatura o la pressione. Questo satellite è stato l’Explorer XVII, lanciato nel 1963.
Ed ecco i Tiros il cui programma ha avuto inizio nel 1960: il Tiros I, specializzato in meteorologia, trasmise a terra 22.952 immagini in 11 settimane di esistenza.
Ricognizioni di varia natura furono poi effettuate dai satelliti serie Midas e Samos. Ricognizioni parziali hanno avuto il loro campione nel Mariner lì che ha inviato un rapporto fitto fitto sul pianeta Venere, trasmettendo
65 milioni di dati in circa 86.000.000 di chilometri.
Come funzioni un satellite di questo tipo si può dire in breve, anche se si tratta di un meccanismo ovviamente assai complesso. Uno strumento può rilevare per esempio le radiazioni provenienti dalla superficie del pianeta Venere. lì dato informativo codificato viene ritrasmesso a terra con una sola potenza di tre watt e può quindi essere ricevuto solo grazie alle gigantesche parabole dei radiotelescopi, i quali possono avere antenne che superano i 20 metri di diametro. Nel caso del Mariner i segnali, debolissimi, furono ricevuti dall’antenna di 26 metri del radiotelescopio Goldstone, nella famosa zona californiana in cui si trova la Death Valley o Valle della morte.
Ricevuto il segnale, l’antenna lo trasmette all’amplificatore, dal quale passa direttamente su banda magnetica e su nastro perforato. Da quest’ultimo, a mezzo telescrivente, viene trasferito negli elaboratori che lo ricodificano e Io traducono in tabulati numerici, in grafici indicativi e infine Io registrano su una seconda banda magnetica in chiaro.
I tabulati, che prendono il nome di Decommutated Data Listing, comportano delle abbreviazioni convenzionali, sotto le quali si allungano le colonne dei riferimenti numerici. In questo modo gli scienziati hanno sempre sott occhio il dato che loro interessa e nel caso di esperienze di qualche anno indietro il semplice inserimento della banda magnetica nell’elaboratore permette l’istantanea ricostruzione completa dei rilevamenti.
Fra le principali osservazioni dei satelliti vi sono quelle condotte dai cosiddetti satelliti solari od OSO, sigla che sta per Orbiting Solar Observatory. lì programma OSO ha analizzato il problema delle protuberanze, i campi magnetici solari con le relative tempeste (magnetiche s’intende) e così via.
L’apporto scientifico dei satelliti artificiali è immenso e l’analisi del loro contributo ci porterebbe assai lontano; basterà un solo esempio per dimostrarlo. Grazie ai dati trasmessi da un Tiros, e cioè il numero 3 lanciato nel 1960, le autorità americane riuscirono a far sgomberare a tempo di record 350.000 abitanti dalla costa atlantica prima che si abbattesse su di essa un celebre uragano.
Non basta. In soli tre anni i primi sette satelliti del programma Tiros riuscirono a individuare 32 tifoni sul Pacifico e i 8 uragani in Atlantico.


UN LUGLIO PIUTTOSTO INTENSO
Il mese di luglio del 1959 si presentò come singolarmente ricco sotto il profilo astronautico. Proprio in un periodo in cui la gente va in vacanza, russi e americani decuplicarono le iniziative e intensificarono le sperimentazioni. Per quanto riguarda l’Unione Sovietica essa continuò con il massimo riserbo i programmi già impostati e soprattutto l’analisi del comportamento di mammiferi dalla struttura simile a quella umana inviati nello spazio in vista di un futuro volo con equipaggio in direzione del cosmo.
Da parte americana, invece, l’attenzione era ancora polarizzata dal problema del vettore che era poi, in un’ultima analisi, il problema del combustibile. Le domande o, come direbbero gli antichi retori, i corni del dilemma, potevano essere sintetizzati come segue:
vettore rivoluzionario con propergoli tradizionali o propergoli rivoluzionari per vettore tradizionale?
I vettori di cui si disponeva non sembravano poter rientrare, nè sotto il profilo della concezione nè sotto quello dei combustibili, in nessuna delle due categorie.
Fra i più angustiati, come vedremo più avanti, c’era lo stesso Wernher von Braun. Fra i più preoccupati per gli sforzi sovietici erano soprattutto i militari. Uno di questi era il capitano Donald Steelman, capo ufficio programmi per i missili Atlas.
Vedremo adesso, attraverso una serie di date e di notizie di cronaca, la cronistoria breve di questa intensa estate che vede i due giganti mondiali affrontarsi non più sul piano degli armamenti tradizionali, ma nel settore ancora sconosciuto della conquista dello spazio.


6 luglio 1959.
L’Unione Sovietica annuncia di aver inviato giorni prima nello spazio una coppia di cani e un coniglio; tutti e tre gli animali sono stati recuperati indenni dopo il lancio; i «cosmonauti a quattro zampe» hanno «indossato» una speciale tuta spaziale.
lì lancio in questione è stato effettuato il 2 del mese, con decollo alle 6,40; una capsula del peso di 2 tonnellate, quota massima 300 chilometri. I cani si chiamano Otvasnaja e Snescinka.
Otvasnaja ripeterà l’impresa il giorno 10 luglio, involandosi alle 4,12 in compagnia della cagnetta Perla e un complesso di strumenti che ha finito per portare il peso della capsula a duecento chili in più della precedente.
La notizia del primo e del secondo lancio (quest’ultima giunta alle agenzie occidentali solamente il giorno 14) mette a rumore non solo il mondo giornalistico, ma anche quello scientifico; è infatti l’ennesima dimostrazione che i russi dispongono di vettori di eccezionale potenza; questi vettori hanno dato la stura alle più varie congetture; chi ha pensato a razzi giganti, chi a razzi pluristadio, chi a razzi impiegati con tecniche di lancio inusitate, tali da aumentare notevolmente l’effetto della reazione: come lanci da installazioni sotterranee o da tubi di smodata grandezza; ipotesi fantascientifiche, queste ultime, che non tengono conto del fatto che l’astronautica sovietica si è sviluppata, al pari di quella americana, avvalendosi, sul piano tecnico, delle stesse conclusioni e delle medesime premesse che avevano costituito la base delle realizzazioni e delle ipotesi tedesche.
Per gli animali è stato previsto un alloggiamento stagno di 0,28 m3 con sistema di rigenerazione d’aria; ad effettuare le prime esperienze con questo tipo di cabina è stato il professor Pokrovsky; esperienze dapprima condotte a terra con simulatori, quindi a bordo di aerei. Ogni esperimento ha realizzato tutte le registrazioni delle funzioni fisiologiche, dal battito cardiaco alla temperatura corporea, alla pressione arteriosa. Ogni coppia di animali ha avuto a disposizione una riserva di ossigeno pari a 900 litri con pressione, all’interno dello scafandro, di 440 mm; ogni casco è stato dotato di una valvola speciale in grado di aprirsi al momento in cui la capsula ridiscende ai 4.000 metri di quota consentendo così all’animale di respirare direttamente dall’atmosfera e non più dalla bombola di alimentazione.
Per le esperienze spaziali, stando a quello che hanno comunicato gli stessi russi, sono stati esperimentati diversi animali, dai cani, appunto, ai conigli; fra i cani sono stati scelti una dozzina che sono stati allenati a indossare lo scafandro, a respirare col casco allacciato al bocchettone della valvola, e così via. I primi lanci sperimentali sono iniziati con altezze abbastanza modeste (si parla di circa 35 km) e ritorno con razzo paracadutato (apertura automatica del paracadute a circa quattromila metri dopo caduta libera alla velocità di 1.000 metri al secondo). Gli inizi delle esperienze si sono avuti fin dal 1949, ma è soprattutto verso la fine degli anni ‘50 che sono state intensificate. Faceva parte delle équipes di studiosi una delle più valenti e competenti dottoresse, Ada Kotovskaja, colei che può essere considerata la vera esperta di fisiologia animale nello spazio.
Particolarmente interessanti sono risultate le registrazioni del rallentamento del battito cardiaco durante la caduta libera, in cui si è notata una accentuazione del fenomeno già osservato durante il volo vero e proprio (in due cani questa diminuzione del battito è risultata connessa anche a una drastica caduta del ritmo respiratorio passato bruscamente da i 50 respirazioni al minuto a 50).
Nella maggior parte dei soggetti, allenati come si è detto al volo, non si sono avute però reazioni brusche o incontrollate: l’organismo è sembrato rispondere bene e reagire convenientemente allo stress dell’accelerazione e della decelerazione.
Naturalmente tutte le esperienze sono state filmate con apposite cineprese che hanno agito all’interno della capsula fin dal momento del lancio; proprio dalla minuziosa osservazione dei filmati i biologi e i fisiologi russi sono riusciti a stabilire come quasi tutti gli animali (eccettuati i due di cui è detto sopra) abbiano sopportato tranquillamente la prova; e cioè anche sotto il profilo psichico; uno dei cani è apparso così tranquillo da inseguire con lo sguardo, addirittura, i giochi della luce del sole sulla parete della cabina. Neppure la maschera per l’ossigeno ha recato loro fastidio, abituati com’erano a indossarla, e così dicasi per la tuta spaziale che pure ne ha compresso il corpo. E dopo il recupero, una volta aperta l’ogiva, il cane non ha mai dato segni di impazienza.
Esperimenti positivi su tutta la linea, hanno concluso gli scienziati sovietici.

Fine 3a parte
 
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