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LA CONQUISTA DELLO SPAZIO, 1a Parte

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view post Posted on 31/10/2004, 15:25     +1   -1
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LA CONQUISTA DELLO SPAZIO
1a parte
by Fox


LA GARA
RUSSO -
AMERICANA



UN PAESE CHIAMATO COCOA

1969: a Capo Kennedy tutto è piatto; tanto piatto che sembra di trovarsi in piena laguna, nel rovigotto, per esempio, con «canali» che intersecano le brulle distese, con ciuffi d’erba spelacchiati e qua e là bruciati; tutto piatto tranne in un punto. Quello dove si erge una rampa contro un cielo che sarebbe d’un bel blu terso e lindo se non intervenissero queste esperienze, queste partenze dei razzi, a riempirlo di vapori e fiamme: perché, laggiù, è la rampa di lancio, è il banco di prova o di partenza dei più grandi missili che l’uomo abbia mai costruito dal giorno delle esperienze di Peenemunde.
Quando da Capo Kennedy vi è una « partenza», c’è un
Lancio d’una qualche importanza, allora ai bordi della
« laguna » convergono i turisti muniti di trespoli. teleobiettivi che qui in Europa costerebbero quanto il salario
annuale di un operaio, roulotte fantastiche per il comfort
e le dimensioni., americane), automobili di ogni tipo. E’ qui che s’vede l’altra faccia della corsa allo spazio, quella commerciale, turistica, dozzinale, anche se non mancano figli di papà che vi giungono. mescolandosi
alla folla variopinta. a bordo delle loro Morgan Plus Four, per le quali hanno atteso anche un paio danni prima di vederle arrivare dall’Inghilterra; auto non certo larghe nè comode, ma che sono la replica più replica che ci sia, perché il modello è identico, nella fattura e nel disegno nonché nella qualità dei materiali, al prototipo del 1936 della stessa Morgan, che da più di trent’anni costruisce solo quello, in un paio di versioni, Gli americani van matti per questo cose; cosi Capo Kennedy si trasforma in una kermesse, con le canadesi monoposto (e l’hippie, dentro, munito di chitarra) accanto ai trailers con acqua calda o fredda e generatore di corrente a benzina.
Capo Kennedy: il cuore delle conquiste spaziali ma anche un grosso carnevale.
Per andarvi bisogna recarsi nella terra di Miami, in Florida. La strada è la stessa che corre da ,Jacksonville a St. Augustine fino a un nome caro agli sportivi, Daytona Beach. Qui comincia una sorta di laguna nel cui mezzo vi è Capo Kennedy che un tempo si chiamava Cape Canaveral. L’area della NASA sorge sulla Merritt lsland, un lembo di terra fra la piatta Florida o la sottile lingua che delimita oceano. Questo lembo di terra è attraversato da canali quasi perpendicolari al modesto litorale ed è delimitato da due «fiumi»: uno, verso la terraferma, A l’lndian River (in realtà uno specchio di acqua stagnante), altro è il cosiddetto Banana River; il nome non sembra posto a casaccio perché, in effetti, ha forma di una banana.
Capo Kennedy non è però nella Merritt lsland, ma al di là del Banana River; è un triangolo di terra fra lo specchio d’acqua e il mare; tutto lungo il mare sorgono, appunto, i complessi dì lancio. In totale sono 41. II n. 39, quello dal quale partono i vettori Saturno, si trova a nord anzi è il primo venendo da Daytona) ed è diviso in due
settori, il PAD B (più a settentrione) e il PAD A (pad è la piattaforma di lancio). Fra le due piattaforme un piccolo e frastagIiato gioco d’acqua.
Cocoa Beach, il carnevale dei carnevali, dove la scienza divento grottesco al servizio del più dozzinale dei consumismi, in cui un baraccone da fiera avrebbe l’aria di costruzione nobile e sobria, si trova al di là della laguna, verso l’interno e più a sud rispetto a Capo Kennedy; più in là ancora c’è Melbourne.
Capo Kennedy non ha nulla di segreto, essendo stato fotografato, con le sue piazzole circolari e le enormi rampe di lancio, innumerevoli volte. Per cui è logico che ne’ suoi pressi, in vista di un avvenimento eccezionale, finiscano per convergere migliaia di persone. E, dopotutto, una cittadina come Cocoa, senza Capo Kennedy e i «ricordini» non avrebbe ragione di sopravvivere.
Il tecnicismo, appena fuori di Capo Kennedy, si cobra dì carnevalesco; poiché ogni snack, ogni ristorante, ogni drug-store ha la sua variopinta insegna; andate a mangiare al «Gemini» dico un’insegna più sobria delle altre e perfino graziosa se guardata nel mezzo della parata di orrori; più sotto un cartello con freccia avverte:
Cocktail Lounge, e ancora più in basso un altro, luminoso di notte, ammonisce. C’è Steve Gibbs al pianoforte Il lunedì, il giovedì e il sabato. Ben pochi sanno chi sia questo Steve Gibbs ma non importa; se lo dice il proprietario del ristorante «Gemini» vuoi dire che va bene. Cento metri più avanti frenate per scaramanzia, perchè si ergono tre croci bianche, quella in mezzo più alta delle altre; sotto, un cartello bianco inquadra la scritta: Chiesa battista, e un mappamondo con una bella orbita percorsa da un satellite; il quale satellite non ha l’aspetto comune degli altri perché è il libro della bibbia, aperto, che svolazza attorno alla terra, con la didascalia (confessoche non l’ho capita): «Attorno al mondo nello nostra generazione». In compenso, più in basso, si viene a sapere che I pastore si chiama Gene Keith, che il servizio divino si effettua alle 11 antimeridiano o alle 19,30 della sera (ma le scuole possono recarvisi alle 9,45.,. deI mattino, si intende, per il solito catechismo piò coro); quanto alle preghiere potete andare il mercoledì alle 19; la dottrina può essere appresa il pomeriggio della domenica alle 16,15. Indubbiamente il nostro pastore non Conosce Soste.
Vi allontanate in fretta di lì per finire quasi a sbattere contro un altro gigantesco cartello; ma non èquest’ultimo che ha attirato la vostra attenzione, bensì un razzo blu, enorme, con la punta rossa, che pare pronto a svettare verso il cielo; il tabellone dice: Benvenuti a COCOA. Cocoa (cacao) è di quelle cittadine tipicamente americane, sorte dal nulla, quattro case a un piano, bar-juke box, che fanno un pò vecchia frontiera; c’é però (e come potrebbe mancare?) una sede del Lions lnternational, una del Rotary, come pure vi sono le rappresentanze dì decine di altri clubs e associazioni, tutte debitamente illustrate dal loro distintivo messo in formato cubitale sotto insegna cittadina (negli States se non appartenete ad almeno due o tre club o associazioni siete perduti; iscrivetevi, magari, al club dei raccoglitori di lepidotteri, ma fatelo subito). E a Cocoa non puà mancare il motel; inutile aggiungere che si chiama Sea Missile...
I giardini e parchi pubblici di Capo Kennedy sono zeppi di «copie», alcune piuttosto dozzinali, delle diverse sonde spaziali e decine e decine di turisti pagano il biglietto per aggirarsi all’interno della fasulla riproduzione, in cui non c’è nulla da vedere essendo ogni cosa postìccia.
Neppure l’immancabile scritta United States è fedele all’originale.
Quanto ai tedeschi, se venite qui per vederli, è meglio che cambiate programma, perché non arriverete mai a scorgere Georg Mùller —‘ divenuto George Mueller —, il direttore dei servizi spaziali, e nemmeno l’ormai quasi completamente calvo e canuto (sulle tempie) Robert Gilruth, che solitamente se ne sta a Houston ed è il direttore dei programmi per le astronavi, e nemmeno l’uomo più calmo della terra, il celebre Kurt Debus, direttore del centro di Capo Kennedy dal 1962, che già aveva diretto i lanci delle V 2 a Peenemonde. Von Braun potrete anche vederlo, ma in televisione: e tutti, indiscutibilmente, hanno conservato l’aria teutonica, malgrado l’evidente americanizzazione; i più «tedeschi»sono rimasti Mùller e Debus, soprattutto il primo con un’aria seria e professorale che nessun statunitense «originale» avrà mai. Più abbordabìli (è più facile anche vederli) sono gli italo-americani (ve ne sono molti a Capo Kennedy: come Rocco Petrone, per esempio, direttore delle operazioni di lancio; e che sia italo-americano ognuno lo capisce solo a guardarlo, grande e grosso come è, con i capelli ricci, le sopracciglia folte, l’aria lucana, a far da contrasto con il secco Debus che pare sempre in divisa, anche da come si muove, nonostante siano ormai quasi trent’anni che èin borghese).
E sotto quel cielo azzurro, terso, con qualche fiocco leggero e bianco all’orizzonte, che si nota? Una teoria di palmizi fìancheggiati da una parallela fila di.., razzi, razzi di tutte le dimensioni e di tutti i colori (ma predomina l’argento), altrettante riproduzioni dei predecessori dell’Apollo o del Saturno; se ne stanno li, inutile paccottiglia tesa al cielo, di fronte alta brutta costruzione del Tecnical Laboratory.
Girate lo sguardo, disgustato, dall’impressionante parata di orpelli metallici e il vostro occhio cade su
una cabina telefonica a... forma di capsula spaziale, o sulla vetrina di un negozio che espone accappatoi da bagno con insegne di razzi, o piccoli Snoopy (il cagnolino delle stripes) in tuta da astronauta, per poi mostrare miriadi di mini-razzi (giocattoli naturalmente) funzionanti per davvero, con centralina di comando a pile e propellente solido, Ogni razzo è decantato da eloquenti cartellini: questo fa bip-bip appena cade al suolo, così potrete ritrovarlo anche fra i cespugli, dice una scritta; un paracadute che si apre sempre
contenuto in questo meraviglioso razzo della Estes! Nuovo! Compratelo ora! ecc. Finché vi vien quasi da ridere di fronte all’insegna, anzi alla costruzione a forma di luna, d’un ritrovo al n. 7.802 dell’... Astronaut Boulevard.
dopo esservi digeriti altre decine di riproduzioni di motori piantati in mezzo alla ghiaia bianca, con coppie che si fanno fotografare davanti alla tragica imitazione, sorrisi estatici e piedi calcanti la spoglia metallica a mo di elefante ucciso, dopo aver cercato invano di bere un cocktail che non si chiami Gemini o Polaris, odi addentare un panino che non abbia appellativo di Luna, Venus o Jupiter. di dormire in un alberguccio che non abbia il bar interno «Satellite», dopo aver evitato d’un soffio dì fermarvi a cena al Moon Restaurant, prendete la prima strada che sembra indirizzarvi lontano da quel mondo e pigiate sull’acceleratore quanto lo consentono le (severissime) norme statunitensi in materia di velocità sulle strade urbane e suburbane,
Addio a Cocoa, addio a Capo Kennedy e addio allo spazio,.. vi verrebbe quasi fatto di dire.
Ma per molte miglia ancora incubo di Capo Kennedy vi perseguiterà, perchè la pubblicità ai margini delle strade, a ogni piccolo distributore dì carburante o motel,
vi ricorderà implacabilmente che voi state attraversando una zona sacra alle imprese dei razzi, a tante miglia dal centro di lancio, fotografato più volte dall’alto dai razzi muniti di telecamera, e via dicendo,
Inutile aggiungere che fra i modellini di razzi che un padre sconsiderato può comprare al proprio figliolo vi sarà anche quello munito di una macchina fotografica a fuoco fisso che scatterà l’immagine alla fine dello srotolarsi di un congegno a orologeria, quando il razzo avrà raggiunto la massima altezza: e avrete così, dal vostro minirazzo, la fotografia del punto da cui l’avete lanciato:
scattata dall’alto (Nuovo! Compratelo subito! Eccezionale! ecc.).
o
Cinquant’anni fa a Capo Canaveral non c’era assolutamente niente; o, meglio, sì, esisteva una sorta di locanda che serviva ai pochi pescatori della zona; un postaccio squallido, poco invitante: e quest’aria poco invitante avevano trovato anche i primi scienziati mandati lì, come in quarantena: qualche americano si mostrava soddisfatto della decisione; che i tedeschi stiano a marcire nelle paludi e fra le zanzare, diceva; in effetti il luogo era quanto di più malsano si potesse immaginare; sciami di zanzare creavano verso sera come una fitta nebbia, tanto che ogni lavoro, in quelle condizioni si rivelava ben presto impossibile.
485.000 are aveva acquistato il governo; ma di queste, metà era terreno fradicio, molle, metà era coperto di sterpaglia, malsana anch’ossa come tutto il resto; e tutto questo sebbene il posto avesse ricevuto un nome pomposo dagli acquirenti... statali:
Long Range Proving Ground.
Non si sa che cosa abbia pensato, allora, il colonnello dell’esercito Harold A. Turner quando vi venne inviato, come direttore, nel dicembre dell’anno 1949. Certo non dovette essere entusiasta della decisione dei suoi superiori, Li aveva trovato una piazzola di cemento, gettata cosi sulla sabbia, che faceva la felicità dei serpenti e dello bisce d’acqua, ai quali non pareva vere di potersi acciambellare comodamente su un terreno liscio e uniforme; quanto ai serpenti, essi poi vi facevano il chilo» sdraiati pigri sotto il solleone, Le prime tende, erette come in guerra, s’erano rivelate uno sfacelo: serpenti per ogni dove, nonostante i catini e i rinforzi, zanzare che vi pullulavano malgrado le reti; se uno si avvicinava all’esterno subito la zanzariera, bianca, si faceva grigia di insetti attirati dalla prospettiva di un banchetto.
Di strade, nemmeno a parlarne. Carrarecce, piuttosto:
due, che confluivano a V nella base di cemento.
Non c’era acqua a sufficienza, di quella potabile, beninteso, non salmastra; ci si faceva la barba ogni tre giorni, si impazziva sotto il sole e per il caldo: quanto alla brezza dal mare nemmeno a sognarla: quei cespugli che costeggiavano il posto bastavano a chiuderlo in una morsa senza vento, E i tecnici parevano anche loro dei trogloditi; mal rasati, con le occhiaie per il poco dormire e il lavoro eccessivo, avevano aspetto di condannati al bagno penale; qualcuno, anzi, cominciava a perdere entusiasmo e abnegazione: qualche altro faceva fieri propositi di prendere il primo sgangherato mezzo e di... far l’auto stop fino a Washington...
Sui primi tempi — davvero eroici — di Cape Canaveral c’è tutta una serie di aneddoti che sono stati raccontati da molti di coloro che ebbero la fortuna (o, a seconda di come si giudichi il fatto, il triste privilegio) di far da battistrada. Si racconta per esempio del giorno in cui capitò
lì una tizia, armata di fucile (scarico per buona sorte) che minacciava una strage se quei «rompìscatole» non avessero subito levato le tende, materialmente e metaforicamente. La scalmanata dovette essere sollevata dipeso e portata via recalcitrante, poiché non voleva sentir ragioni di sorta e sosteneva che lei, delle prove con i razzi, se ne infischiava, voleva solo che «quella gente» si levasse di torno.
E gli altri «vicini», a chilometri di distanza, vedevano la troupe di scienziati con il medesimo occhio benevolo e accogliente.
Un altro aneddoto racconta di quel tecnico che era arrivato al punto di prendersi un colpo di calore a furia di andare su e giù con una jeep perle spiazzo di cemento,
Lo si vedeva partire non appena il sole dardeggiava e aveva reso bollenti i sedili del mezzo militare. E incominciava, regolare, una specie di carosello lungo la pista fin quando il sole non cominciava a calare sull’orizzonte; la jeep andava avanti e indietro per ore lungo i bordi. Allucinante e vero al tempo stesso, perché quel tecnico aveva il compito dì tener lontani i serpenti dai margini del campo in modo che non strisciassero fino al luogo dove lavoravano, attorno a, razzi, i tecnici.
A proposito dei razzi, le solite V 2 preda bellica, cè da dire che il primo lancio fu un fallimento totale; il razzo sputò un po di fiamme, fece un po di baccano ma non accennò minimamente a muoversi e rimase seduto con le sue «pinne» sulla base di cemento, I tecnici si presero quel giorno uno spavento notevole e arrivarono appena in tempo a bloccare ogni cosa prima che Il mancato esploratore del cielo si convertìsse in una micidiale bomba; poi la V 2 venne sezionata come un cadavere in sala anato¬mica e si scopri che la notevole salsedine del luogo corrodeva alcuni delicati comandi del razzo, che dimostrava di
non gradire affatto né il clima nè Il paesaggio di questa zona della Florida.
I lanci dei missili erano osservati «a vista» da un carro armato dotato di schermo di vetro antipallottola dietro il quale si accoccolavano i tecnici; altri tecnici se ne stavano più distante; sulla sinistra si metteva di solito uno di loro cinque o sei al massimo munito di cinepresa montata su treppiede per fumare lo «stacco» del razzo e il suo volo.
Al centro vi era uno con un buffo cappello da baseball e un megafono come quello dei registi: il direttore delle operazioni di lancio; infine vi erano quelli che con strumenti, macchine fotografiche con lastre a colori, ecometri, ecc., misuravano la potenza e fissavano l’istante del decollo.
Si lavorava giorno e notte; avevano, questi uomini, come punto d’appoggio una baracchetta con pareti di legno foderate da carta catramata e finestrotte sempre semichiuse, anche per far buio all’interno e non attirare le zanzare (ve ne erano di microscopiche che pungevano come e più delle grandi e che arrivavano a «passare» fra le maglie della zanzariera). Quando venne lanciato il WAC—Corporal, che abbiamo già citato nel primo volume, un tecnico confessa di sentirsi troppo stanco per poter gioire di quel successo. Il desiderio era uno solo, visto che tutto era andato secondo il verso giusto: andare a farsi una bella dormita e non pensarci più. Questo tecnico era Rob Haviland, il geniale ingegnere e direttore dei progetti della Generai Electric.

Fine 1a parte
Continua

Edited by -Fox Mulder- - 28/11/2004, 23:39
 
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